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Anatomy of Restlessness: Joe Clark, Tom Esam, Felix Kiessling, Claus Philip Lehmann, David Prytz, Sarah Ancelle Schoenfeld, Yorgos Stamkopoulos, Philip Topolovac

11.05.16 — 01.06.16

contributo critico di Lorenzo Bruni

 

 

La mostra ‘Anatomy of Restlessness (Anatomia dell’irrequietezza)’ - titolo preso in prestito dalla raccolta di “racconti dal mondo” di Bruce Chatwin uscita postuma nel 1996 - nasce dall’esigenza della Galleria Mario Iannelli di fare il punto sul percorso che ha intrapreso da quando si è trasferita da Berlino a Roma.

 

 

Tutti gli artisti coinvolti hanno già avuto una personale nella sede romana ad eccezione di Topolovac che la inaugurerà a settembre e di Stamkopoulos a dicembre. Quindi l’occasione di questa collettiva offre la possibilità di verificare sul campo, da parte dell’artista/spettatore, le vicinanze di dialettica che esistono tra i loro percorsi e che altrimenti sarebbero rimasti relegati ad un piano intuitivo. Così, il video ‘Now (Diaspora)’ di David Prytz, in cui parole che si formano sullo schermo per poi cancellarsi e venire sostituite da altre in un loop “autoriale” e non solo temporale, influenza e si fa influenzare nell’interpretazione dalla vicinanza con le altre opere che affrontano le stesse tematiche anche se con modalità differenti. Ad esempio la presenza dell’intervento pittorico su tela di Jeans di Claus Philip Lehmann, sulla cui superficie si configura un cilindro in sospensione per mezzo di pittura bianca, pone immediatamente al centro del discorso il collasso di Magrittiana memoria tra oggetto e sua nominalizzazione avvenuto nel corso del secolo passato. Da questa stessa presa di coscienza sembra nascere l’opera di Philip Topolovac del modello in scala del Berghain, un famoso locale di ritrovo di Berlino e il cui nome deriva dall’incrocio dei nomi dei due quartieri Kreuzberg e Friedrichshain, poiché sorge sul loro confine. La scelta di realizzarlo in sughero tramuta visivamente l’elemento architettonico in oggetto scultoreo con la capacità di portare in primo piano il come mai oggi si discuta di “archeologia del presente” e se possiamo parlare di inflessioni barocche anche per il modernismo. Questi sono gli stessi pensieri che sprigionano le tele di Yorgos Stamkopoulos, tra l’informale e il geometrico, e che per questo spostano l’attenzione sul loro processo di creazione, il quale costringe due superfici pittoriche a coesistere sullo stesso supporto, evocando la tecnica dello stacco dell’affresco o della decomposizione nel tempo delle facciate dei palazzi storici. L’aspetto singolare di questo progetto curatoriale è che la dimensione corale e “laboratoriale”, stabilita per mezzo di un intenso dialogo tra opere autonome, non limita ma amplifica la fruizione dello specifico “metodo di ricerca tra lo scientifico e l’irrafigurabile” (1) adottato dai singoli artisti in mostra. Inoltre, la constatazione che il tempo di reazione da parte dell’utente al mondo delle informazioni globalizzate è divenuto nullo non è per loro il punto di arrivo, bensì quello di partenza per domandarsi su cosa la società può intendere oggi per “esperienza diretta”. La loro risposta sembra essere che in un mondo “smaterializzato” e dove domina il “presente espanso” l’unico modo per creare un gesto reale in senso radicale sia quello di realizzare non delle opere site specific, ma “time specific” (2). Ovvero immagini che si fanno coagulo di temporalità differenti - introiettando una dimensione performativa nel processo costitutivo dell’opera stessa - per aprire riflessioni e visualizzazioni inedite sul cosa vuol dire oggi “percepire l’attorno” da un’istante specifico. Queste valutazione vengono naturalmente affrontate da questi artisti tenendo conto dell’attuale passaggio di consegne dal sistema analogico a quello digitale. Per questo motivo le sedici opere inedite presenti in mostra spaziano, oltre a quelle già citate, dalla macchina celibe ‘Clock running’ di Felix Kiessling che misura la durata della mostra per mezzo di un gesso che disegna in maniera reiterata un cerchio su di una base di legno, all’installazione ‘Snake dance’ di Sarah Schoenfeld in cui una pelle di serpente è animata da un’aspirapolvere in funzione soffiante il cui tubo attraversa unendo e/o sfondando due pareti della galleria. Queste sono delle “presenze” che nascono nella consapevolezza che hanno a che fare oggi con una fruizione virtualizzata e che quindi gli strumenti di valutazione devono essere ri-pensati o ri-calibrati nel momento che vengono messi alla prova. L’immagine fotografica ‘Asset Management’ di Joe Clark esprime con estrema delicatezza tutto ciò, visto che consiste in una superficie sintetica illuminata con la tecnica utilizzata per realizzare i rendering nello spazio fittizio della computer grafica, producendo fogli svolazzanti congelati in una pausa che evoca una trasformazione narrativa filmica più ampia. Mentre ‘Je suis Esam’ di Tom Esam, una superficie di seta collocata sul vano della finestra che si affaccia sull’esterno e su cui una immagine in bianco e nero di una folla di manifestanti porta in marcia il nome dell’artista evidenziato in rosso, fa implodere quelle tecniche pubblicitarie e di marketing che negli ultimi decenni sono state applicate alla progressiva “estetizzazione del corpo politico” e “alla partecipazione emotiva della collettività”. L’approccio analitico propositivo, che accomuna tutte le opere appena citate, conduce questi artisti ad affrontare da una parte una riflessione sul “pittorico” indipendentemente dall’oggetto quadro e quindi sull’analizzare in modo critico il concetto di storia dell’arte costituito secondo la tradizione occidentale. Mentre dall’altra si trovano a dover verificare e a mettere alla prova le intuizioni scientifiche e sociali acquisite nel corso del secolo passato per formare un nuovo “senso comune”. L’obbiettivo finale di questi loro gesti intimi e delicati sembra essere l’interrogarsi su quale possa o debba essere il ruolo dell’artista nell’era che si sta definendo come quella di “post internet” (3), o meglio la reale capacità dell’arte di influire nel mondo attuale.

 

 

La generazione degli artisti presenti nella mostra ‘Anatomy of Restlessness (Anatomia dell’irrequietezza)’ è quella che si è costituita nel periodo in cui il web si è trasformato da possibilità democratica di scambio delle informazioni “politiche ufficiali” all’utilizzo di App per l’intrattenimento del tempo libero/lavorativo o per “l’imposizione” di dati che precedentemente sarebbero stati classificati come squisitamente personali. Questo periodo di passaggio, dal punto di vista del dibattito culturale, ha prodotto una richiesta equivoca di ritorno alla realtà. Dal convegno di filosofia di colonia del 2011 all’articolo uscito nel marzo del 2016 su e-Flux di Boris Groyes sembra che il centro del discorso si sia spostato su cosa si possa intendere per concretezza della realtà e per verità del gesto artistico in un mondo in cui la post-produzione è divenuta la norma (da Istagram a Wikipedia, da Airbnb alle serie televisive in streaming). Questo “virtuale concretizzato” è l’orizzonte concettuale, pragmatico e sociale che hanno fortemente introiettato e a cui reagiscono questi artisti realizzando opere al pari di dispositivi processuali ideati proprio per essere condivisi e ri-discussi. Il movente inconscio che li guida è quello di capire quale possa essere, oggi come oggi, il corretto sguardo sulle “cose/informazioni” e assumersi e infondere la responsabilità per la corretta trasmissione dei dati di conoscenza. Per questo motivo le loro opere mettono in scena la ricerca di equilibrio, al limite con l’impossibile, tra materiali contraddittori e tra elementi naturali e artificiali. Utilizzare come materiale primario quello digitale equivale a calare la pratica del collage o del “ready made” nel mondo degli algoritmi elettronici. Così, siamo di fronte ad una nuova idea di assemblaggio che si discosta dalla tradizione delle avanguardie, perché gli elementi che associano sono estrapolati dalla realtà virtuale in cui siamo immersi tutti noi oggi. La modalità di realizzare un’opera che rappresenta non un’immagine della realtà bensì il meccanismo che provoca l’evento epifanico in presa diretta è una strada aperta dalla generazione a loro precedente e che va da Mario Airò a Carsten Höller da Olafur Eliasson a Cai Guo-Qiang fino a Thomas Demand. Però, a differenza di loro agiscono in una dimensione “introiettiva” poiché hanno ben chiaro che l’idea comune che tutto è già stato scoperto e che tutto è alla portata di un clic è ormai naufragata. La grande novità che propongono però non risiede in questa constatazione bensì nel fatto che l’assemblaggio non è per loro il mezzo, ma il soggetto dell’opera. In questo modo l’analisi della superficie dell’opera coincide con quella dell’oggetto rappresentato e viceversa, praticando così una terza via rispetto a quella che attualmente riflette sulla tradizione del figurativo o su quella dell’astrazione. Questa loro attitudine estetica/concettuale è diretta a provocare un cortocircuito nella percezione dello spettatore volta ad alzare in lui un maggiore livello di attenzione per i processi cognitivi che adotta giornalmente per dialogare con il mondo.

 

 

Questo loro punto di vista è sintetizzato e suggerito dalla scelta del sottoscritto di adottare come titolo del progetto quello della raccolta di scritti che vanno dal 1968 al 1987 di Bruce Chatwin e che è uscita postuma nel 1996. Chatwin, il grande esploratore del “secolo breve” e l’incarnazione della “alternativa nomade”, si domandava nel 1966, nel mondo della ripresa economica dopo la seconda guerra mondiale e che iniziava a fare i conti con il colonialismo: “Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?” Il mondo, dalla morte di Chatwin e soprattutto dall’uscita del libro, è diventato molto più piccolo, apolitico e apparentemente senza misteri. La sua domanda che aveva dato origine alla raccolta sembra risuonare in tutte le opere proposte per la mostra. Il soggetto oggi vive, dal suo spazio privato dello schermo del dispositivo elettronico, in una continua irrequietezza di non saper dove posare lo sguardo poiché è “sovraeccitato” dall’idea di poter essere ovunque o che questo ovunque sia congelato ed eterno. Di conseguenza, gli artisti che partecipano a questo progetto, esplorano questo stato d’animo proprio per ri-valutare cosa intendiamo per privacy, per archivio, per proprietà intellettuale, per comunità, per memoria, per opera d’arte e per rappresentazione del visibile/concettualizzabile.

 

 

Scoprire il mondo per gli artisti di ‘Anatomy of Restlessness (Anatomia dell’irrequietezza)’, prima di tutto equivale a verificare e ri-settare i meccanismi razionalizzanti e simbolici con cui viene reso condivisibile da tutti. Infatti, la domanda di fondo che stanno indagando questi artisti sembra essere: perché oggi è opinione comune che un’immagine fotografica “nasce” nel momento che viene condivisa nello spazio della rete e non quando viene scattata come invece accadeva per l’epoca meccanizzata precedente? Per questo le loro opere sono accomunate dal porsi non come un confronto/ scontro con la realtà, ma sul visualizzare le modalità cognitive e produttive che la costituiscono. Così, si configurano come dei dispositivi di tempo compresso che rivolgono la loro attenzione al farsi e al disfarsi delle cose in relazione a quel contesto specifico in cui si manifestano. Ad esempio la serie fotografica ‘Unnecessary complications’ di Joe Clark, il cui soggetto è una superficie specchiante su cui sono ritagliate forme astratte che permettono di scorgere il paesaggio urbano o naturale in cui è collocato, diviene la testimonianza del tentativo di captare l’atmosfera di un ambiente generale e non solo la formalizzazione dell’oggetto d’arte fine a sé stessa. Tom Esam, esponendo il progetto ‘ESAid (water campaign 1)’ che consiste in dei flyer in una teca di plexiglas con immagini su una campagna per portare l’acqua ai bambini in Africa, visualizza direttamente il tempo che lo spettatore impiega per decifrare i messaggi di marketing che la politica o la moda adotta per creare situazioni rassicuranti e strumentalizzanti proponendo una critica di tutto ciò. La serie fotografica dal titolo ‘Modulit’ di Philip Topolovac propongono come soggetti i modelli di satelliti lanciati nello spazio, però tradotti in modellini di cartone e fotografati non con volontà di creare una mimesi perfetta, ma evidenziando il trucco e ricercando l’autonomia di quel materiale/oggetto che si pone a metà tra quello che era e quello che imita. Mentre la serie fotografica di Sarah Schoenfeld, che lavora da sempre sulla traduzione del movimento e dello stadio liquido in una forma fissa e viceversa, rappresentano composizioni astratte che sono ingrandimenti della soluzione per pulire lo schermo dell’ipad mentre si trova su di esso, trasformando così il mezzo di diffusione delle immagini in internet nel soggetto di quella specifica visione. Queste opere appena citate mettono in evidenza il momento di traduzione percettiva e costruttiva che trasformano un’oggetto in un altro, svelando che l’identità di quest’ultimo dipende dal contesto, ma soprattutto dal fatto se lo sguardo dell’osservatore è consapevole o meno. In alcuni casi questa ricerca di consapevolezza va a coincidere con quella dell’artista rispetto alla sua capacità di creare: creare cosa? Cosi Claus Philip Lehmann si interroga sul gesto pittorico reiterato del disegnare che lo porta a saturare completamente con la graffite dei fogli di carta cancellando o sublimando i singoli gesti, i quali però vanno a costituirsi come parte di una composizione più ampia nel momento in cui sono esposti su una porzione quadrata di muro dipinta di blù. Mentre, con le tele di Yorgos Stamkopoulos, il gesto del pittore viene destrutturato per mezzo di quadri che si interrogano su cosa solitamente permette allo sfondo di farsi soggetto, o ad una decorazione di diventare un’opera astratta. L’interrogazione su quale sia il limite e l’influenza dell’opera sull’attorno dipendentemente o indipendentemente dalla cornice che la contiene è largamente esplorata anche da David Prytz. Quest’ultimo propone un’opera formata da due elementi, una superficie di vetro che viene esposta su piedistallo e una di ottone a parete, che contengono due forme geometriche che rimandano all’allineamento-superficie che stabiliscono i pianeti di Venere, Marte, Terra e Mercurio nel giorno dell’inaugurazione e in quello della chiusura della mostra, creando così un ulteriore strumento temporale collegato a quel contesto fisico/mentale. Invece, la scultura di Felix Kiessling, esposta all’esterno della galleria e costituita da una pietra ovoidale solcata da orbite incastonate naturalmente al suo interno e in equilibrio su un piedistallo piramidale, sintetizza la ricerca del perfetto equilibrio anelato da sempre dall’uomo tra astrazione delle idee e elementi prodotti dalle forze della natura, tra massimi sistemi e caso specifico. Questi artisti indagano, per mezzo di tecniche differenti, i limiti e l’identità della superficie del “soggetto immagine”. Le loro opere, così, sono la rappresentazione di gesti intimi che si insinuano direttamente nei meccanismi con cui vengono mediate le informazioni/immagini “dell’attorno espanso” per evidenziarne il funzionamento e poter cosi influenzare, in quanto singolo e comunità, la percezione e soprattutto la capacità del singolo di interagire con il mondo.

 

 

(1) Il concetto di “irrafigurabile” è al centro di nuovi dibattiti che affrontano le tematiche toccate a suo tempo da filosofi come Husserl, Pavel Florensky e Jean-Luc Nancy, ma alla luce delle nuove tecnologie digitali e delle immagini/informazioni/cose che esistono per mezzo di algoritmi matematici.
(2) Il primo a teorizzare e a parlare approfonditamente, dalla fine degli anni novanta, di interventi “time specific” è l’artista Antonio Muntadas. I precedenti importanti di questa idea del time specific rispetto alle immagini e non alla performance, prima ancora che fosse diffusa la pratica del site specific, sono da ritrovare nei testi e display per le mostre curate da Harald Zeeman, nelle opere-incontri di Joseph Beuys e negli interventi, all’inizio degli anni novanta, dell’artista di origine cubane Felix Gonzalez-Torres.

(3) “Il termine post-internet non si è diffuso perché è stato ben definito. Al contrario, la sua ambivalenza e la sua apertura ha permesso di diffondersi ampiamente. [...] Si conferma e nega al tempo stesso, esercitando una sorta di doppio legame con il periodo precedente.” Da Stefan Heidenreich “Freeportism as Style and Ideology: Post-Internet and speculative Realism, Part 1” in e-Flux, Marzo 2016.

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