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Claus Philip Lehmann: Si tacuisses philosophus mansisses

12.06.15 — 31.07.15

Testo di Anna Redeker

 

 

È obiettivo dichiarato di Claus Lehmann riferire l’ arte a nient’altro che a se stessa, impiegando la pittura sia come mezzo di rappresentazione che come rappresentazione stessa. È in questo modo che crea, ad esempio, quadri monocromi bianchi su tela, la cui complessità si rivela solo ad un esame più attento – sottili variazioni nell’intensità delle vernici producono forme e ombre che si riferiscono ripetutamente agli spazi esterni. Le immagini diventano pittoriche quanto più a lungo sono osservate – perché le strutture e le forme entrano in una interrelazione con l’ambiente circostante in quanto variano con i giochi di luce e prospettiva dell’osservatore.


Queste interazioni permettono anche ai lavori di più piccola scala di avere un impatto – in quelli in mostra, per esempio, l’artista ha utilizzato grandi pezzi di grafite per coprire intere superfici in modo tale da produrre strutture cangianti e riflettenti che sembrano fluire attraverso l’opera.


Claus Lehmann aumenta questi effetti con l’ausilio di specifici momenti di installazione – le opere in mostra sono, ad esempio, presentate su sfondi scuri e il modo in cui la luce entra dall’ esterno è stato incorporato nell’ allestimento delle opere.


È in questo modo che il “White Cube” come piattaforma per l’arte è negato permettendo così al mondo esterno di fluire nelle opere stesse.


I materiali che Claus Lehmann impiega sono anche del tutto in linea con il concetto d’avanguardia di convergenza dell’ arte con la vita reale.


Tali materiali non sono rimossi dal mondo reale ma sono usati e consumati – e producono così segni di usura che rimangono visibili e che sono intenzionalmente utilizzati. È in questo modo che le opere d’ arte sono creazioni che interagiscono con l’ambiente, senza voler tuttavia aggiungere un ulteriore significato ad esse.

 

 

 

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