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David Prytz: Literal

04.10.14 — 20.12.14

Testo di Anna Redeker

 

 

Quando entriamo nell’ installazione di David Prytz – ed entriamo in essa, come se occupasse lo spazio proprio come la natura si insedia in uno spazio – siamo immediatamente posti di fronte ad una totale impressione di fragilita’ e precarieta’. Le forme sinuose che si ripetono nell’ ambiente appaiono fragili e senza peso, in aperto contrasto con il carattere grezzo e non finito della materia di cui sono fatte.

 

Prytz usa materiali che sono generalmente usati per produrre altre cose o riparare altre cose. Materiali da costruzione come il plexiglass, fasci e cavi di rame sono uniti da nastro e gesso, carta specchiante, luci led a pietre, a formare una figura astratta che, guidata da piccoli motori e ingranaggi, si muove e si attorciglia come se avesse una vita propria. Niente e’ stato abbellito o nascosto, le giunzioni e le articolazioni dei materiali sono visibili per accentuare tale impressione. I materiali non hanno riferimenti in se’, le forme non hanno alcuna funzione, anche se la materia di cui sono fatte si riferisce letteralmente a che ci debba essere qualche funzione. Siamo cosi’ preparati a scoprire una funzione, ma questa e’ un’ illusione perche’ non c’ e’ funzione. Siamo pronti ad essere coinvolti nel finire un processo, per ottenere quella forma astratta, ma siamo di fronte a un processo che non finisce. I movimenti dei singoli elementi non seguono alcuna funzione o modello. Formano un disegno astratto che e’ in continua evoluzione. Un’ animazione prende letteralmente luogo e troviamo un mondo a se’ che funziona solo per se stesso. Come spettatori non siamo affatto coinvolti in quella funzione, ma semmai ne siamo esclusi completamente. La nostra aspettativa di essere soddisfatti non si realizza, perche’ non c’ e’ nessun significato superiore da scoprire, nessuna spiegazione o interpretazione, allusione o riferimento. L’ opera e’ li’ solo per se stessa, creata solo al fine di creare. Gli oggetti diventano soggetti, che esistono intorno. E lo spettatore diventa oggetto, una parte del tutto che non ha pretese.

 

L’ installazione, intitolata “Tabula Rasa, again”, è completata da fotografie su lightbox e disegni geometrici, che si rivelano anch’ essi istantanee di un processo in corso e di gesti catturati, intitolati, “Literal Geometry”, “Two Points Moving in Space” e “Dumb Alchemy”. La proiezione di una sorta di camera oscura dal titolo “Many Suns” raffigura un processo che non ha inizio e non ha fine, che ha moto e luogo solo per se stesso.

 

 

 

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